giovedì 26 febbraio 2009

LA VERA TRADIZIONE DELLA CHIESA

Nella Chiesa Cattolica il dogma esprime una verità di fede creduta da tutti, da sempre ed ovunque: presenta, quindi, come parametri validi di riconoscimento l'antichità e il consenso universale.
La verità dogmatica è opera della Rivelazione Divina e viene promulgata, mediante uno specifico processo, dal Sommo Pontefice: «La definizione del dogma, sulla scia della fede universale del popolo di Dio, esclude definitivamente ogni dubbio e postula l'espressa adesione di tutti i cristiani» (v. Udienza generale di Giovanni Paolo II del 2 luglio 1997 nn. 2-3).
Da questo punto di vista le verità dogmatiche, diversamente da altri atti magisteriali, hanno la peculiarità di non essere reformabili. In ordine di tempo gli ultimi documenti dogmatici, ai quali è dovuto l'ossequio e l'obbedienza della fede, sono proprio le Costituzioni Dogmatiche del Concilio Vaticano II.
Fra queste c’è la DEI VERBUM: promulgata da Paolo VI il 18 novembre 1965, essa riguarda specificatamente la Divina Rivelazione, che, nell’ambito della dottrina della Chiesa Cattolica Romana, prende corpo dall’unico deposito costituito dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione.
La DEI VERBUM al n. 8b così caratterizza la Tradizione: «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le Parole di Dio».
Nella Costituzione Conciliare la presenza di quei tre «sia» (nella versione latina tum) definisce il modo autentico di declinare Tradizione nella Chiesa: la Tradizione cresce solo se i credenti studiano la parola, se vi è intelligentia delle cose spirituali e se vi è la predicazione episcopale. Quando si amputa uno dei tre «sia», o anche vengono tra loro disarticolati, si travisa la Tradizione e si devia per un percorso erratico, genericamente indicato come “tradizionalismo”.
C’è una notazione importante sul Concilio Vaticano II, che almeno per le più giovani generazioni deve essere messa in risalto: le dinamiche di fede che hanno ispirato il Concilio Vaticano II non sono state quelle della discontinuità, ma della continuità con la più vera Tradizione della Chiesa Cattolica, come recentemente ha sottolineato lo stesso Benedetto XVI nel suo discorso Ai membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2005.
Ed in effetti, se a livello storico si vanno a rivedere quali sono stati i Movimenti ecclesiali preconciliari che hanno portato alle Costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II, ci si renderà conto che il Concilio, lungi dall'esser stato un puro moto di rinnovamento, è stato soprattutto un moto di riscoperta delle più vere e profonde radici cristiane, in questo ispirato dall’azione dello Spirito e suggellato dai pronunciamenti dogmatici di Paolo VI.
Per tutte le ragioni sopra esposte, l’attuale vicenda dei seguaci di Mons. Lefebvre continua a ledere gravemente la pax ecclesiale e ad offendere la dignità del “Ministero Petrino”.
Ad oggi i lefebvriani, piuttosto che rivendicare una propria tradizione, che, per quanto si è detto, non hanno mai potuto avere non solo per motivi disciplinari (Giovanni Paolo II con il motu proprio “Ecclesia Dei” del 2 luglio 1988 ha scomunicato i lefebvriani), ma anche per ragioni di mancata comprensione storica e di fede degli eventi conciliari, invece avrebbero bisogno di un di un processo di conversione, che, sebbene più volte richiesto da Benedetto XVI, malgrado il suo gratuito perdono paterno non pare esser stato ancora intrapreso.

Andrea Volpe

Cosa ci insegnano le Elezioni Regionali in Sardegna

C’è una lettura macroscopica del dato delle Elezioni Regionali in Sardegna, che è il seguente:
Ugo Cappellacci 51,90% Liste collegate 56,71%
Renato Soru 42,89% Liste collegate 38,62%
Vittoria a mani basse del Centrodestra e del suo Candidato alla Presidenza della Regione. Amen!
Ma se si vanno a prendere le percentuali dei due Partiti protagonisti della cosiddetta “vocazione maggioritaria” e si confrontano con i risultati delle Politiche 2008, i conti cominciano a non tornare:
Regionali 2009 Politiche 2008 Differenza
Pdl 30,53% 42,40 11,87%
Pd 24,42% 36,20 11,78%
Intanto mentre nel 2008 Pdl e Pd insieme avevano un 78,60% del consenso, oggi rappresentano appena il 54,95%.
Ancora si vede chiaramente che a perdere non è stato solo il Pd, ma nella stessa misura anche il Pdl.
Dove sono finiti tutti questi voti?
Il 9,37% se li è presi l’Udc, che probabilmente ha messo a frutto il fatto di essere ormai l’unico partito a dichiararsi di ispirazione cattolica ed anche il suo peculiare radicamento in Sardegna.
L’Idv di Di Pietro ha raccolto il 5,20% con una leggera crescita rispetto al 4,00% delle Politiche 2008.
I cespugli della sinistra insieme raccolgono l’8,99%, quasi quanto l’Udc.
I Riformatori, assieme all’Uds-Psi, a destra mettono insieme ben il 10,31%.
Infine c’è la tradizionale area autonomista sarda, in queste elezioni presentasi frammentata e composta da Psd’A, MPA e dalle due liste indipendentiste di Gavino Sale e Gianfranco Sollai: quest’area oggi rappresenta l’8,97%.
A voler essere precisi, per completare il quadro c’è ancora la lista socialista di Peppino Balia con il 2,14%.
Da questa più accurata analisi risulta evidente che alle elezioni regionali della Sardegna dal punto di vista politico il vero sconfitto è stato il bipartitismo fondato sulla coppia Pdl-Pd, di fronte alla constatazione che fuori da questo duopolio resta ben il 45% dell’elettorato!
Letti così, i risultati elettorali sardi indicano che c’è un’insufficienza dei due maggiori partiti nazionali e, se si vuole, anche una sofferenza di larghe fasce elettorali nei loro confronti.
È pur vero che questi risultati non hanno valenza nazionale, ma solo locale. Ma se fossero sintomatici del sentire politico nazionale, ci troveremmo in un bel pasticcio, perché al di là dei sondaggi che dicono gli italiani favorevoli agli sbarramenti (ma bisognerebbe capire bene che cosa è stato chiesto nel sondaggio…) e al di là anche alla volontà della diade Pdl-Pd di legittimarsi a vicenda il duopolio del potere, in effetti la Nazione non è pronta ad una gestione bipartitica di tipo anglosassone.
Questa situazione poi nell’area del Pd è tragicamente aggravata dalle dimissioni del Segretario Veltroni e dal verosimile ritorno indietro sulla veltroniana “vocazione maggioritaria”, che ha portato la sinistra italiana alla sconfitta e alla depressione permanente.
Nel frattempo, però, il Pd ha promosso ed ottenuto… (sic!) lo sbarramento anche alle Elezioni Europee e adesso si trova ad andare alla prossima tornata elettorale con una legge che ha voluto, ma che già non corrisponde più alla sua nuova linea politica!
Mai una conduzione partitica è stata così squinternata e scriteriata come quella del Pd e di Veltroni, che ad oggi è stato il miglior alleato che Berlusconi abbia potuto avere!
Speriamo bene per l’Italia!

lunedì 2 febbraio 2009

Sbarramento del 4% alle Elezioni Europee?

Sbarramento del 4% alle Elezioni Europee?

Lo sbarramento al 4% per le Elezioni Europee costituirebbe un’ulteriore svolta autoritaria, che andrebbe al di là del dato, già di per sé grave, di cancellare identità politiche meritevoli di cittadinanza nel contesto della politica italiana.
Infatti tale sbarramento, applicato all’ambito nazionale, impedirebbe di dare voce anche a istanze politiche che localmente rappresentano molto di più del 4%, sebbene a livello nazionale restino sotto tale soglia. E questo comporta pericoli oggettivi per l’unità e la democrazia della Nazione: non si può permettere che minoranze territorialmente significative non siano politicamente rappresentate.
Ma in tutto questo c’è una “contraddizione in termini” molto più grave e stridente: in un momento in cui a fatica la Nazione sta andando verso una riscrittura federalista della propria struttura, uno sbarramento elettorale a scala nazionale sarebbe percepito come un segnale di direzione opposta alle riforme in atto e darebbe al popolo italiano l’ennesima indicazione di incoerenza dell’attuale classe politica.
Dopo, il fatto che l’imposizione di tale sbarramento sia realizzata a ragione di un’intesa tra PDL e PD la dice lunga sulla salute mentale di molti nostri politici.
Il PDL, partito padronale e oggi largamente maggioritario nel Paese, fa il suo gioco e da un punto di vista cinicamente politico, ahinoi, si può dire poco!
Ma è il PD che in questa vicenda mostra chiari sintomi di schizofrenia mentale, a partire dalle dichiarazioni di Dario Franceschini, che parla di una democrazia fondata su due soli partiti, il PD e il PDL. Infatti, il molto modesto Dario non si accorge che tra PD e PDL oggi ci sono quasi 20 punti percentuali di differenza nel consenso e che un tale accordo cancellerebbe, assieme alle identità politiche minori di destra e di sinistra, anche lo stesso PD!
A meno che l’accordo raggiunto da Franceschini con il PDL non serva solo agli attuali maggiorenti del PD per salvare esclusivamente le proprie poltrone in un contesto di ulteriore perdita della loro rappresentatività, e, a questo punto, anche della loro personale credibilità politica.
E forza parlamentari del PD, un sussulto di dignità, per cortesia!
Le pensioni già le avete! Invece di continuare a pensare ai vostri stipendi e alle vostre prebende, pensate un po’ alla Nazione!
E anche voi “dipietristi”, sempre pronti a sparare a zero su tutto, non è che stavolta starete zitti di fronte a questo ennesimo scippo di democrazia nei confronti del popolo italiano, solo perché vi conviene e sapete bene di essere gli unici beneficiari di questa operazione?
Se si vuole limitare la frammentazione del quadro politico, l’unica iniziativa congruente con il clima politico attuale, tutto teso verso il federalismo, sarebbe quello di applicare un eventuale (per quanto non necessario) sbarramento selettivamente a bacini elettorali omogenei, come potrebbero essere le regioni o i collegi elettorali, rispettando così le esigenze e la dignità territoriali.

Andrea Volpe